La prima volta in carcere

Non è facile raccontare gli stati d'animo che ho vissuto durante la mia prima esperienza di medico in carcere. Ci provo, ma non sono sicuro di riuscirci. La liberà è un racconto davvero difficile.

Un mondo che non conosco

È un racconto difficile.
Oggi è stato il mio primo giorno in carcere, da medico.
Parcheggio lo scooter nel cortile, chissà perché lo sistemo con cura tra le strisce, è il presagio di uno stato d’animo innaturale.
Ho di fronte il portone d’ingresso. Ho un attimo di esitazione prima di suonare il campanello. Il portone si apre da se, non è magia, c’era scritto “non suonate il campanello”. Io però guardavo chissà quale pensiero.
Appena dentro, non posso che capire che guardavo le mura che chiudono la libertà fuori da quel portone.
Entro nel gabbiotto, sono davvero imbarazzato, le mani cercano qualcosa con cui impegnare l’ansia che non ho mai conosciuto prima. È per essere dentro un mondo che non conosco, ed è davvero un altro mondo, lo è per le urla del silenzio. E io provo a rispettarlo, in silenzio.

«È la prima volta che viene in carcere?»

Mi indicano la strada per l’infermeria. Il mio passo è come tra la neve fresca, vorrei avere una traccia da seguire, come quelle del cortile e non le calpesterei.
Incontro il primo cancello e il rumore della chiave che apre io l’ho sentito solo nei film, è metallico vero. C’è un secondo cancello, il suono della chiave è uguale, forse anche di più. Adesso davanti a me ho un ragazzo che mi saluta dalla sua cella perche quella che sto vedendo è una cella. C’è una grata dalla quale lui mi sorride. Non è un film, riesco a dire solo buongiorno, lui mi sorride.

L’infermiera che mi viene incontro capisce il mio stato d’animo. «È la prima volta che viene in carcere?», è una domanda innaturale, il mio è un sorriso innaturale.
Inizio le visite. L’educazione dei pazienti è la regola cui nessuno sfugge, è un rincorrersi di grazie dottore, mi scusi dottore. Mi viene naturale pensare che altrettanta educazione non la trovo in un ambulatorio senza mura e non so dirmi perché sto pensando così.
Ho vergogna della mia curiosità, devo interessarmi del perché stanno male e non di altri perché. Quasi tutti hanno paura di avere un male incurabile. Hanno una vita costretta in pochi metri quadrati, ma è la loro vita e io continuo a a dirmi perché sto pensando così.

Ho finito le visite, l’infermiera mi dice «Si ricorda da dove uscire?». Muovo la testa in segno di assenso, ho fretta di uscire, rifaccio il percorso inverso, ripasso di fronte quella stessa cella. C’è un altro volto e mi guarda senza salutare. Io dico “Ciao”, non ho risposta.
Quando il portone d’ingresso si chiude alle mie spalle, ho un salto d’animo, è come quando prendi improvvisamente una discesa. È una sensazione difficile da raccontarmi, non ci provo nemmeno e non so perché lo sto pensando.
La libertà è un racconto davvero difficile.