Piacere, sono Annalisa

Il 20 febbraio 2020 all’ospedale di Codogno è stato diagnosticato il primo caso italiano di COVID-19. Il paziente si presentava in condizioni critiche, con un quadro grave di ARDS ad alto rischio evolutivo. Quella diagnosi tempestiva gli ha salvato la vita, ma ha anche salvato quella di molti altri.

Intervista ad Annalisa Malara, medico rianimatore della ASST di Lodi

Il 20 febbraio 2020 all’ospedale di Codogno, una cittadina di quindicimila abitanti che si adagia in pianura, tra Lodi e Piacenza, è stato diagnosticato il primo caso italiano di COVID-19. Il paziente si presentava in condizioni critiche, con un quadro grave di ARDS ad alto rischio evolutivo. Quella diagnosi tempestiva gli ha salvato la vita, ma ha anche salvato quella di molti altri.

Annalisa è una giovane donna che vive e lavora a Lodi. Il suo è un lavoro impegnativo e di grande responsabilità, che le occupa gran parte del tempo e dei pensieri. Fa il medico, è una rianimatrice del reparto di terapia intensiva dell’Ospedale Maggiore di Lodi. Alcuni giorni lavora anche all’ospedale di Codogno, presidio gestito sempre dalla ASST di Lodi. La mattina del 20 febbraio Annalisa era in servizio proprio a Codogno, senza immaginare che gli avvenimenti di quel turno avrebbero stravolto la quotidianità sua e quella di milioni di persone. L’abbiamo incontrata a distanza di quasi 4 mesi dalla diagnosi del primo caso di COVID-19 in Italia, dopo svariate interviste rilasciate a televisioni e giornali, dopo premi ed onorificenze (è stata nominata Cavaliere al merito della Repubblica Italiana e riceverà il premio “Rosa Camuna” la massima onorificenza della Regione Lombardia). A riflettori spenti, ci siamo seduti sull’erba in un parco e abbiamo provato a conoscerla, cercando di capire come questa vicenda sia andata ad impattare sulla sua vita.

Come stai, Annalisa?

Sto bene, anche se molto stanca. Da mesi lavoriamo duramente. Il numero di pazienti COVID-19 in terapia intensiva è notevolmente diminuito, ma i ritmi di lavoro sono rimasti alti.

Pensi che quanto successo abbia cambiato la tua vita o che, in qualche modo, farà cambiare la tua vita?

Questa pandemia ha cambiato la mia vita tanto quanto ha cambiato quella di tutti, né più né meno. Si tratta di un evento epocale, di quelli che si vivono intensamente e lasciano tracce. Da piccola camminai in oltre un metro di neve in piazza a Cremona, e mia mamma diceva che non avrei mai dimenticato quel momento, perché era unico e probabilmente non si sarebbe più ripetuto. Dal punto di vista personale, considero il coronavirus un’esperienza, da mettere da parte una volta terminata, proprio come la nevicata del 1985.
La mia vita professionale? Non è cambiata. Ogni giorno vado in ospedale per fare del mio meglio, come ho sempre fatto. I miei obiettivi professionali sono rimasti identici. Vorrei diventare un medico sempre più capace, con lo studio e l’esperienza. Questo mi interessava prima, questo mi interessa adesso.

Sei diventata famosa. Digitando il tuo nome in un qualsiasi motore di ricerca sul web si hanno decine e decine di pagine che parlano di te e della diagnosi del primo paziente affetto da COVID-19 in Italia. Che effetto ti fa?

Mi fa piacere aver dato il mio contributo in questa situazione, così come mi fanno piacere i riconoscimenti che ho ricevuto. Li condivido con tutti coloro i quali hanno lavorato con me, in questa professione il lavoro di squadra è fondamentale.

I riflettori che si sono accesi improvvisamente su di te hanno avuto qualche effetto sulle persone che ti circondano?

Per fortuna, nella maggior parte delle situazioni, non è cambiato nulla. Io sono rimasta “Annina” per tutti, o quasi. Purtroppo qualcuno ha mostrato un po’ di freddezza e distacco nei miei confronti, non so bene per quale motivo. Chi mi conosce sa che non amo particolarmente stare al centro dell’attenzione, ma quella mattina a Codogno io c’ero e quando mi è stato chiesto di raccontare come erano andate le cose, l’ho fatto. Non per cercare le prime pagine dei giornali, ma per veicolare dei messaggi, soprattutto in un momento durante il quale a proposito della pandemia si diceva tutto e il contrario di tutto.

Come pensi sia stata raccontata questa storia?

Si sono accesi i riflettori, appunto, e tutto è stato molto spettacolarizzato. Non dico che i giornalisti abbiano scritto cose non vere o che le interviste in video abbiano riportato quel che non ho detto. Ma dico che gli accenti sono stati posti non dove avrei voluto metterli io, ma dove ha voluto chi ha raccontato la vicenda. Forse questo è inevitabile. La mia prima intervista è stata fatta con “Repubblica” all’inizio di marzo. Quando il giornalista mi ha chiamato al telefono, era la prima volta che venivo intervistata, ho risposto alle domande per completare le informazioni che i media già avevano avuto con il comunicato stampa della Direzione Sanitaria. Non mi aspettavo tanto clamore, perché non stavo dicendo qualcosa di diverso da quello che già si sapeva. Il Dr. Paglia, responsabile del Pronto Soccorso di Lodi, aveva già raccontato la vicenda a “Repubblica” qualche giorno prima. Ma, evidentemente, questo non bastava. I media volevano sapere chi fosse l’anestesista che quel giorno era a Codogno, volevano narrare una storia e volevano la sua protagonista. Ma i toni della vicenda sono stati molto enfatizzati.
Quello che è successo a Codogno rispecchia la buona pratica clinica a cui siamo abituati io e gli altri miei colleghi nell'affrontare il percorso diagnostico-terapeutico di un malato. Nel momento in cui c'è un un'ipotesi diagnostica, per quanto remota, se si ritiene possa essere in qualche modo plausibile non la si scarta a priori. Si va a fondo e si cerca, all'interno di un percorso diagnostico completo, per garantire la massima tutela del paziente. La diagnosi in sè è stata eccezionale, soprattutto per i risvolti che ha avuto per la comunità. Ma si è trattato del frutto di un atteggiamento clinico scrupoloso. Non c’è stato nulla di eroico o di eclatante. Eclatante è stata l’eco, certamente. La diagnosi ha messo in allarme il nostro Paese e l’Europa intera, consentendo di mettere in atto tutta una serie di di misure di tutela per i sanitari e per la comunità. Abbiamo scoperto che il virus non era in un posto lontano, difficile da individuare col dito su una mappa, ma era arrivato tra noi.

Ti sono state attribuite doti di coraggio e perseveranza per aver forzato i protocolli, che non prevedevano l’esecuzione del test del tampone. Non ti attribuisci nulla di coraggioso, nemmeno per questo?

Non mi ci rivedo proprio nelle vesti dell’eroe. Questo è il tipo di toni sensazionalistici che io non ho mai usato, in nessuna intervista. Vero, la situazione mi ha fatto pensare ad una infezione da coronavirus. Vero, il protocollo non prevedeva il test del tampone per verificare la presenza del virus SARS-CoV-2. Falso, che io abbia dovuto lottare per poter eseguire il test.
Io cerco di mettere sempre al centro di tutto il malato. Quindi, se lo voglio curare al meglio, non devo scartare nessuna ipotesi a priori. Avevo un paziente in condizioni estremamente gravi, con un quadro TC polmonare molto compromesso, che non rispondeva alla terapia e andava peggiorando rapidamente. L’ipotesi era plausibile, per questo l’ho condivisa con il mio responsabile. Il protocollo non lo prevedeva, ma nessuno mi ha vietato di farlo. Certo, per ottenere l’esame ho dovuto fare non poche telefonate, ma non ho dovuto fare nessuna lotta. La mia valutazione è stata subito condivisa, tutte le scelte sono state condivise fra me, i miei superiori, i vari consulenti interpellati. Ripeto, ho dovuto mettere olio nell’ingranaggio, questo sì, ma nessuna battaglia.

Se quella mattina non ci fossi stata tu a Codogno, ma un altro anestesista-rianimatore, la vicenda si sarebbe svolta allo stesso modo?

Non so rispondere. Io credo di aver fatto quello che qualunque altro medico scrupoloso avrebbe fatto in quel momento.

Abbiamo parlato con qualche tuo collega. Dicono che sei stata molto brava, che non tutti ci sarebbero arrivati così in fretta. Non ti attribuisci nessun merito?

Di aver fatto il mio dovere. E di averlo fatto in modo tempestivo. La tempestività del tampone ha permesso di organizzare in tempi brevi il sistema sanitario. La tempestività ha fatto la differenza, questo lo ammetto.

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L'ospedale di Codogno, riaperto da poche settimane

Nel racconto della tua storia c’è stata molta enfasi su alcuni aspetti, molto poca su altri. Scegline uno fra questi ultimi che, secondo te, avrebbe meritato più attenzione.

Con tutti i giornalisti io ho sempre parlato del lavoro fantastico fatto dell’equipe infermieristica. Non ne ha scritto quasi nessuno, e chi lo ha fatto ci ha dedicato forse una riga. Gli infermieri di Codogno si sono trovati a gestire probabilmente il primo caso di COVID-19 in Europa e secondo me lo hanno fatto in modo esemplare. Io ne sono rimasta molto colpita. Il caposala, Giorgio Milesi, aveva questo incarico da poche settimane. Eppure, non appena saputo del sospetto diagnostico, ha gestito il reparto in modo efficiente. Ha vietato gli accessi in terapia intensiva, ha recuperato i DPI, istruito il personale. Nessuno si è tirato indietro, tutti gli infermieri hanno lavorato senza sosta. Nessuno ha mostrato paura o rabbia, sentimenti che erano assolutamente comprensibili. Nessuno, in un momento in cui di questo virus si sapeva ben poco.
Io quel giorno avrei dovuto finire il turno alle 16, ma sono rimasta al lavoro fino al giorno dopo.  Non me la sentivo di lasciare solo il mio collega, arrivato nel pomeriggio per sostituirmi, con un paziente tanto complicato. Nemmeno volevo coinvolgere altri colleghi, esporli al rischio. Stessa cosa hanno fatto gli infermieri, nessuno è tornato a casa. Per scelta, per tutelare le proprie famiglie e la comunità. Tutti sono rimasti a lavorare in quel reparto per oltre 36 ore. Gli infermieri, gli OSS, tutti sono stati davvero esemplari.

Se potessi tornare indietro, rifaresti le interviste che hai fatto o cercheresti di rimanere anonima?

Rimanere anonimi oggi è impossibile. Il mio nome ha iniziato a circolare insieme al mio numero di telefono personale, e subito mi son trovata a rispondere alle domande di un giornalista. Un giorno il mio telefono ha iniziato a squillare ininterrottamente e per diversi giorni ha continuato a farlo, ad ogni ora. A volte ho pensato che, se quel 20 febbraio fossi stata in Spagna da mia sorella, mi sarei risparmiata molte situazioni poco piacevoli.
Rifarei le interviste, certo, perché le ho fatte con l’idea di trasmettere dei messaggi. Non ci sono riuscita sempre, ma ci ho provato. Molti colleghi si sono sentiti rappresentati da me e questo mi ha fatto molto piacere. Quando descrivevo le difficoltà di lavoro nell’ospedale al centro del focolaio epidemico, parlavo delle difficoltà di tutti i miei colleghi, non solo delle mie. C’è poi stato un momento in cui è stato messo in dubbio quello che si era fatto a Codogno, per me è stato doveroso raccontare e difendere il lavoro fatto. Non solo il mio, ma quello di tutti i miei colleghi.
Io ho provato ad usare l’interesse mediatico che si era scatenato nei miei confronti per veicolare informazioni utili in base alla mia esperienza clinica, in un momento storico nel quale chiunque andava in televisione a dire tutto e il contrario di tutto, spesso senza aver visto nemmeno un paziente affetto da COVID-19.

A questo proposito, cosa pensi di come i medici hanno narrato questa pandemia?

Io ho lavorato molto e non ho avuto tempo di leggere giornali o di guardare la televisione in questo ultimo periodo. Non sono un'esperta di comunicazione, ma questa esperienza mi ha insegnato che la stessa storia può presentarsi in modo molto diverso a seconda di chi la racconta. In una situazione di emergenza sanitaria, come una pandemia, questo non ce lo possiamo permettere. Noi medici oggi dobbiamo imparare a comunicare bene, non solo tra noi colleghi, con i pazienti e i familiari, ma anche con i media.
Io lavoro in team, sono abituata a comunicare con i colleghi, non si può prescindere da questo. Lavoro in terapia intensiva, mi capita spesso di parlare con le famiglie dei pazienti e di dare notizie spiacevoli. Con i giornalisti non avevo mai parlato, in televisione nemmeno. Considerata l’importanza dei messaggi che in alcuni frangenti noi medici dobbiamo trasmettere, penso si dovrebbe fare una riflessione seria sull’argomento. Per migliorare, anche in questo campo.

Ultima domanda, a piacere. Scegli tu cosa dire prima di salutarci.

Il parco sembra aver ritrovato la sua dimensione, ospitando bambini che giocano, fidanzati sulle panchine, nonni che passeggiano lenti. Questa semplicità ritrovata mi rasserena. È stata un’esperienza dura, per tutti. Non so cosa succederà in futuro, se ci sarà una seconda ondata oppure no, se avrà la stessa violenza oppure no. Adesso abbiamo tutti bisogno di serenità. Ci sarà tempo per riflettere ancora su quanto è successo, ci sarà spazio per riflessioni personali e generali. Per me ora è tempo di pensare a riabbracciare mia sorella, che mi aspetta in Spagna.