Dr.ssa Fourcade: "Chi lavora in cure palliative ha molto da dire"

<p align="justify">La Dottoressa Claire Fourcade è la Presidente della Società Francese di Accompagnamento e Cure Palliative.</p>

Alla fine della vita

Una questione che riguarda i caregiver o tutta la società?

Non è possibile fare una distinzione. La Francia è probabilmente il Paese che ha legiferato di più sul tema del fine vita. Questo è essenziale perché le tre leggi principali1 che regolano le cure palliative trasmettono un forte messaggio di solidarietà ai pazienti coinvolti: “Siete importanti per noi, ed è per questo che sarete voi a decidere come finirà la vostra vita, è per questo che i caregiver allevieranno la vostra sofferenza a qualunque costo, anche se dovesse significare accelerare la vostra morte”. Noi medici siamo tenuti a seguire le istruzioni dei pazienti e per farlo abbiamo a disposizione un’ampia gamma di pratiche sedative, dall’ansiolisi alla sedazione profonda e continua fino al sopraggiungere della morte. L’attuale quadro giuridico mi sembra sufficiente.

Tuttavia, è ancora necessario che queste leggi siano conosciute da tutti (pazienti e caregiver) e applicate. Nel 2021, la Società Francese per le Cure Palliative (SFAP) ha condotto un sondaggio tra tutte le persone coinvolte: caregiver, psicologi, assistenti sociali, ecc. Il 75% degli intervistati ha dichiarato di aver già incontrato difficoltà nell'applicazione delle leggi esistenti. Una delle conseguenze è l'interruzione del percorso di cura. Un’altra indagine, condotta dall’Ordine dei Medici, ha mostrato che un paziente su due non si ritiene sufficientemente informato sulla legislazione relativa al fine vita.

La SFAP difende un’idea semplice: le cure palliative devono essere precoci, ovunque, per tutti. Siamo lontani da tutto questo. Due terzi dei pazienti che necessiterebbero di tali cure non vi hanno accesso. I motivi? Mancanza di conoscenze, risorse e formazione.

La questione del fine vita è stata sollevata durante la campagna presidenziale. È un buon segno?

Macron, da candidato, ha parlato di un progetto di consultazione popolare. Dopo il tempo dell'azione, durante l’epidemia di COVID-19, arriva il tempo della riflessione. Quali sono i cambiamenti che la società francese desidera apportare alla questione del fine vita? Il dibattito su questo tema è spesso riduttivo, se non addirittura binario. In genere si concentra solo sull'assistenza medica alla morte, che si tratti di eutanasia o di suicidio assistito. Eppure, nella mia esperienza di medico, ho riscontrato che queste due opzioni sono raramente discusse dai pazienti. È molto più probabile che ci vengano richieste una limitazione o un’interruzione del trattamento.
Gli operatori delle cure palliative sono molto favorevoli all’idea di una consultazione popolare, a condizione che la loro voce sia ascoltata. Ciò che viviamo quotidianamente conferisce alla nostra opinione una grande importanza e avremo molto da dire. Per esempio, diremo che le situazioni di cui si occupano le cure palliative sono singolari e complesse allo stesso tempo, che esistono 50 sfumature di grigio, come le chiamo io. Durante questo dibattito quindi ricorderemo che l’aspettativa dei pazienti non può ridursi a un mero desiderio di morire, ma ci sono diverse necessità e questo lo sappiamo per il fatto che siamo al loro fianco nei momenti in cui dubitano di ciò che desiderano. Questo è un altro limite di questo tipo di discussione: per definizione, i pazienti in cure palliative non possono esprimersi. Si ascolta solo il parere di persone sane.

Qual è la posizione dei caregiver francesi sull’eutanasia e sul suicidio assistito?

Un altro motivo per cui i caregiver che si occupano di cure palliative devono far sentire la loro voce è che sono profondamente coinvolti. A proposito dell’eutanasia, una senatrice ha affermato che “i sentimenti dei medici vengono in secondo piano rispetto agli interessi della società”. Sono parole scioccanti, poiché sarebbe proprio il medico a dover compiere l'atto che determina la morte di un paziente. A volte è molto difficile il solo entrare nella stanza di un malato terminale. Quindi, come si fa ad essere allo stesso tempo colui che ascolta il paziente e colui che prevede di interrompere la sua vita? Come si può ricominciare con altri pazienti, reinvestire in altre relazioni, se si sa già cosa succederà dopo?

Secondo il nostro sondaggio del 2021, il 96% di coloro che si occupano di cure palliative sono contrari all'idea che i caregiver partecipino all’eutanasia. Questa percentuale raggiunge il 98% tra i medici. Se la legge rendesse possibile l’eutanasia, il 40% dei medici intervistati lascerebbe il proprio posto e altrettanti si rifiuterebbero di praticarla avvalendosi della propria libertà di coscienza. Tra quel 20% che non ha preso posizione, alcuni semplicemente non riescono ad immaginarsi questa situazione. Il timore è che, in caso di legalizzazione dell’eutanasia, le cure palliative possano essere seriamente destabilizzate. L’80% di tutti coloro che hanno risposto al nostro sondaggio ritiene che ciò provocherebbe tensioni all'interno dei team di medici.
Per quanto riguardo il suicidio assistito, si tratta di una questione diversa. Questa è forse una strada da esplorare, perché per il momento la legge affronta il problema delle persone che stanno per morire, non di quelle che vogliono morire. Si tratta di una questione sociale che coinvolge meno direttamente i caregiver.

I medici sono sufficientemente formati in cure palliative?

C’è bisogno di formare un maggior numero di medici specialisti che si occupino di casi complessi. Ma la priorità è che tutti i medici, specialmente i medici di famiglia, conoscano le basi delle cure palliative. Purtroppo, durante la loro formazione primaria, l’insegnamento delle cure palliative è ridotto a una decina di ore. Come può un giovane medico avere la sicurezza necessaria per prendersi carico di pazienti che affrontano così violentemente la sofferenza e la morte? Vorremmo che tutti i futuri medici, durante la loro formazione, effettuassero uno stage di alcuni giorni in un reparto di cure palliative. Questo affinché ne comprendano la filosofia, ma soprattutto affinché prendano l’abitudine di consultare questi team.

E per quanto riguarda le cure palliative a domicilio?

Il 70% delle persone vorrebbe poter morire a casa. Questo tipo di assistenza è sempre più frequente, ma rimane delicata. Le condizioni non sono sempre soddisfatte (familiari o amici stretti che sostengano l’idea, una casa adatta, la presenza di badanti e volontari, ecc.). Un altro problema è che alcune terapie sono difficili da somministrare a casa: sedare un paziente è una cosa complessa. Perché è necessario garantire la disponibilità di un medico 24 ore su 24 e avere un letto disponibile in ospedale in caso di necessità. Perché è necessario assistere e informare anche i parenti. Durante la fase di cure palliative a domicilio, il medico di famiglia diventa il pilastro di una “équipe éphémère”. Questo termine, che ho preso in prestito da una giovane collega, è molto appropriato e comprende il personale paramedico, il team di cure palliative e la famiglia.

Molti operatori sanitari parlano della perdita di significato del loro lavoro. Cosa possono insegnarci le cure palliative?

Negli anni ‘90, le cure palliative sono entrate in un campo che era stato abbandonato dai medici. Non si entrava più nelle stanze dei malati terminali. Ora si svuotano interi ospedali. I caregiver gettano la spugna perché per loro non ha senso avere solo 5 minuti per una consulenza o per la pulizia di un paziente. Questa crisi di significato, in nome della “redditività”, mi sembra gravissima.
Non so come ne usciremo, ma osservo che i team di cure palliative sono molto più stabili di altri, con meno turnover e assenze per malattia. Credo che sia perché siamo portati a ridare significato a ciò che facciamo costantemente. Ogni accompagnamento, come lo chiamiamo, ogni presa in carico di un paziente nel fine vita, è al contempo unico ed emotivamente estremo. Dobbiamo dunque rimetterci costantemente in discussione. E lo facciamo in team dove tutte le voci hanno lo stesso pesoi. Questa “filosofia” potrebbe forse aiutare gli altri caregiver.

L'epidemia di AIDS è stato un momento chiave per lei. Perché?

Quando ero una specializzanda, volevo occuparmi di terapia intensiva neonatale. Si potrebbe dire che il mio interesse dell'epoca era l'opposto del fine vita! Poi ho fatto due stage, uno in oncologia e l'altro in un reparto di malattie infettive, nel bel mezzo dell’epidemia di AIDS. Per me, il modo in cui tutti quei pazienti morivano, abbandonati dai medici, era sconvolgente. Volevo fare di meglio, ma le cure palliative in Francia erano ancora agli inizi. Anche molte delle persone che oggi si battono per l’eutanasia sono state profondamente colpite da quei pazienti affetti da HIV.

Abbiamo condiviso lo stesso orrore per queste morti oltraggiose. Tuttavia, siamo arrivati a due posizioni opposte: loro vorrebbero che i medici potessero dare la morte, mentre io penso che si possa ancora migliorare il modo in cui i pazienti muoiono. Questa epidemia ha aperto anche una breccia nel paternalismo medico. I pazienti erano giovani e molto informati sulla loro malattia. A differenza della maggior parte dei pazienti oncologici, i pazienti affetti da HIV capivano molto bene cosa stava accadendo e che sarebbero potuti morire. Per la prima volta è emersa la nozione di “team”, in cui i pazienti e gli assistenti costruiscono insieme l’accompagnamento terapeutico, di cui fa parte anche il fine vita.

Cosa ricorda della sua esperienza in Canada?

Dopo questi tirocini in oncologia e cure palliative, i due anni che ho trascorso in Canada hanno cambiato profondamente la mia pratica di medico, e non solo nel campo delle cure palliative. Là ho scoperto che la struttura dei team è molto meno piramidale e gerarchica. Si potrebbe dire che dopo non ero più compatibile con gli CHU (gli ospedali universitari francesi, in francese: Centres hospitaliers universitaires)! Il Canada rimane ovviamente un esempio per noi. Noi ci battiamo per ottenere un letto di cure palliative ogni 100.000 abitanti, mentre i nostri colleghi del Quebec dispongono di un letto ogni 10.000 abitanti e si battono per migliorare ulteriormente questo rapporto. Questo contrasto sostiene l'idea che in Francia si muoia male e che quindi la legge dovrebbe essere cambiata. Da parte mia, sostengo che dobbiamo prima di tutto essere in grado di applicare le leggi esistenti.

Lei ha molta esperienza nelle cure palliative. Le capita comunque di avere qualche timore prima di entrare nella stanza di un paziente?

Certamente. A volte devo fare un lungo respiro prima di entrare. Ogni incontro è unico e l'esperienza non cambia nulla. Ciò che ho acquisito nel corso degli anni è una maggiore fiducia nella forza della relazione con il paziente. Ora riesco a convincermi più facilmente del fatto che insieme al paziente troveremo la strada migliore per lui o lei. Ciononostante, ho sempre il timore di non essere all'altezza delle aspettative del paziente. Non in ambito tecnico, ma in termini di umanità. Credo che questo non sia mai scontato.

Note e approfondimenti

  1. 1999: la legge Kouchner, relativa all'autonomia dei pazienti, stabilisce in particolar modo il principio del loro diritto all'informazione.
    2005: la legge Léonetti insiste su: il non abbandono dei pazienti, cioè l'obbligo di dare assistenza al paziente a qualsiasi costo, l’evitamento dell’accanimento terapeutico, il rifiuto dell’eutanasia.
    2016: la legge Claeys-Léonetti completa quella del 2005. Per quanto riguarda l’aspetto del non abbandono, introduce la possibilità di praticare una sedazione profonda e continua fino alla morte, su richiesta del paziente, quando la prognosi vitale sia a breve termine. Sull’aspetto dell’evitamento dell’accanimento terapeutico, specifica che l'alimentazione e l'idratazione fanno parte dei trattamenti e possono quindi essere interrotte su richiesta del paziente o, se questi non è in grado di esprimersi, dopo una decisione collegiale (almeno due medici). D’altro canto, con questa legge, le direttive anticipate e la persona di fiducia, che dal 2005 erano indicative, sono diventate vincolanti. Il medico è tenuto a rispettarle.