COVID-19 - Gestione domiciliare tra utopia e realtà

La Dottoressa Carla Bruschelli, Medico di famiglia e Specialista in Medicina Interna, racconta in modo completo l'esperienza dei medici di medicina generale in queste ultime sei settimane. Affronta aspetti di tipo scientifico, organizzativo, amministrativo, umano.

Dalle linee guida alla evidence based practice: gestione domiciliare del paziente COVID sospetto o positivo, tra utopia e realtà

La Dottoressa Carla Bruschelli è Medico di famiglia e Specialista in Medicina Interna. Consigliere SIMI, con Master in Ipertensione arteriosa ed in Fitoterapia, esperta in Farmacologia Clinica, da vent'anni si occupa di ricerca, management e formazione e da dieci anni è comunicatore scientifico nelle reti Nazionali Rai. In questo articolo racconta in modo completo l'esperienza dei medici di medicina generale in queste ultime sei settimane. Affronta aspetti di tipo scientifico, organizzativo, amministrativo, umano.

Introduzione

Dal riscontro dei primissimi casi di COVID-19, intorno al 20 febbraio, i medici del territorio sono stati coinvolti quali sentinelle del sistema. In primo luogo i Medici di famiglia ed i Pediatri di libera scelta, seguiti da Continuità Assistenziale, 118 e Presidi di urgenza. Di fronte a ogni epidemia o pandemia, i primissimi interventi previsti dall’OMS riguardano l’organizzazione operativa in tutti gli ambiti, quindi non solo in ospedale, e la protezione degli operatori sanitari, poiché come dimostrato dai dati di precedenti pandemie, sono i più esposti a contagio ed anche i più probabili diffusori. Il 21 febbraio infatti veniva annunciata dalle istituzioni la imminente distribuzione territoriale dei DPI, strumenti indispensabili di protezione per espletare da parte dei sanitari visite sia ambulatoriali che domiciliari, in vista della progressione del contagio.

Parte prima: la teoria dell'epidemia

I dati conoscitivi disponibili in quei primi giorni provenivano dalla Cina. Indicazioni e suggerimenti come le Linee Guida elaborate dalla Commissione della Salute Nazionale della R.P.C. descrivevano secondo quanto da loro rilevato le modalità di contagio, le principali caratteristiche del virus, i sintomi più frequenti, le comorbidità più presenti nei pazienti deceduti, i riscontri autoptici con le microtrombosi diffuse, i primi approcci terapeutici. L’ISS ha cominciato subito ad elaborare indicazioni  per l’effettuazione dell’isolamento e della assistenza sanitaria domiciliare, ma solo dopo tre settimane, mentre l’epidemia incalzava, si sono prodotte indicazioni esaustive per un utilizzo razionale delle protezioni per infezione da SARS-CoV-2 nelle attività sanitarie e sociosanitarie, e sempre dopo molto, TROPPO tempo i medici del territorio hanno potuto ricevere da Società Scientifiche alcune linee guida per l’approccio clinico al paziente COVID-19 a domicilio, tra le quali il documento SIMIT, le Linee Guida OMS, ed in ultimo un documento riassuntivo SIMG del 1 Aprile.
Nessuno di questi documenti è stato tuttavia in grado di fornire suggerimenti ad hoc di tipo terapeutico per la grande incertezza ancora oggi presente nei trattamenti, data la complessità dei fenomeni fisiopatologici indotti dal virus nei differenti organismi in relazione a molteplici fattori di rischio individuali ed a fenomeni ancora non noti che possono indurre alla evoluzione fatale in tempi rapidi… Senza contare che farmaci ritenuti efficaci erano/sono ancora off label o di tipo ospedaliero, non esenti da effetti avversi, da somministrare agli esordi sintomatologici empiricamente perché quasi sempre non si sono potuti effettuare tamponi diagnostici o si è rimasti in attesa di risposta anche sette giorni, sapendo purtroppo che spesso il viraggio in insufficienza respiratoria avviene intorno al settimo giorno dall’insorgenza sintomatologica. Dunque molteplici soluzioni farmacologiche attuabili in termini di antibiotici di varie classi, antimalarici come idrossiclorochina off label ma documentati, paracetamolo e non FANS, prednisone forse, antitrombotici (enoxaparina sodica) forse.
Dal punto di vista amministrativo, intorno al 20 Febbraio i medici di famiglia hanno cominciato a ricevere nel tempo in modo pressante dalle Aziende Sanitarie (su indicazioni regionali, a loro volta su indicazioni ministeriali), le schede di valutazione per le infezioni delle vie respiratorie suggestive di rischio COVID-19 nonché per la valutazione epidemiologica di paziente sintomatico per affezioni delle vie respiratorie e per la valutazione clinica telefonica del paziente febbrile (da somministrare per evitare afflusso negli studi e cercare di contenere la diffusione virale anche per i medici curanti). A seguire le modalità di segnalazione dei casi sospetti (ma con progressiva difficoltà sino impossibilità nel tempo ad effettuare i tamponi rinofaringei…), l’ordinanza di comunicazione delle persone in spostamento, le disposizioni dei Direttori Generali in merito alle nuove causali di assenze lavorative retribuite (causa di non poche situazioni conflittuali con gli assistiti), le Raccomandazioni per le quali il personale sanitario venuto a contatto con paziente COVID-19 positivo se asintomatico DEVE proseguire la propria attività professionale, previa osservanza di adeguate misure di contenimento e sottoponendosi a sorveglianza sanitaria. Le Raccomandazioni per come far accedere i pazienti, come effettuare correttamente il triage, come lavare le mani, come usare mascherine, guanti, DPI (ad averli!). E poi le Ordinanze regionali, ad esempio il Lazio, su come procedere all’utilizzo della telesorveglianza dei pazienti a domicilio tramite una App dedicata (non facilissima da utilizzare ad esempio per un anziano e non sempre fruibile), per la compilazione dei moduli, e a fine marzo sulle modalità del ritiro dei “DPI”, costituiti al massimo da qualche mascherina chirurgica, due paia di guanti, due camici monouso (presidi ben diversi da quanto raccomandato dall’OMS…). Alcuni Direttori Generali hanno persino inviato risposte perentorie e vessatorie a medici di famiglia che richiedevano distribuzione di DPI per poter espletare l’attività professionale, in quanto liberi professionisti a contratto e quindi responsabili in primis dei DPI e della cura dei loro assistiti anche a domicilio. Tanti documenti, tante regole amministrative, tanta teoria, ma la pratica è stata cosa ben diversa…

Parte seconda: la realtà dell'epidemia

Ventuno territori autonomi con procedimenti diversi e tempi di applicazione diversi, una storia di medici del territorio completamente differente lungo la penisola, ma uniti da un senso di abbandono. Lombardia progressivamente inginocchiata dal numero di contagiati, seguita in modo meno drammatico da Veneto, Emilia Romagna, Marche, Toscana.
Il balletto dei tamponi: prima a tutti, poi solo ai sintomatici gravi o a chi ha avuto contatti diretti con ricoverati, NO ai sanitari a scopo preventivo. Mascherine prima non necessarie, poi indispensabili, ma senza rifornire il territorio. Un numero crescente di diffusori ignari e silenti nelle prime fasi dell’infezione, che hanno riempito corsie di ospedali, ambulatori delle cure primarie, RSA, luoghi chiusi e frequentati. In Lombardia man mano che aumentavano i ricoveri per sintomatici severi diminuivano i posti disponibili, i pazienti sospetti rimanevano tali per impossibilità di effettuare tamponi sino a complicarsi clinicamente, i ricoveri sono diventati sempre più tardivi con necessità di gestire per giorni a domicilio pazienti febbrili IPOSSICI ED IPOCAPNICI, senza certezze di farmacoterapie accertate o fruibili né possibilità di confermare a domicilio la compromissione polmonare, con difficoltà a reperire persino la ossigenoterapia e, soprattutto, SENZA PRESIDI PROTETTIVI per i medici del territorio, ancora oggi mai pervenuti.
I Sanitari contagiati sono aumentati rapidamente insieme ai primi decessi e con essi la doppia paura di ammalare o essere diffusore silente. Ciascun Medico di famiglia ha adottato interventi di assistenza: visite in studio solo su appuntamento e solo a pazienti senza sintomi compatibili con COVID-19, disponibilità telefonica h12 oppure h24, chi 5 chi 7 giorni su 7, ricezione di report di parametri clinici  tramite mail o App dedicate, televisita con videochiamata o tramite WhatsApp, terapie individuali basate su indicazioni “catturate” nel web, visite domiciliari quasi azzerate, a meno di possibilità di protezioni adeguate (i pochissimi che sono riusciti ad acquistare autonomamente attrezzature complete e possibilmente in possesso anche di diagnostica strumentale quali ecografi digitali per valutare eventuali polmoniti).
Le richieste  di ricoveri sono state sempre più spesso negate per assenza di disponibilità in strutture al collasso, con terapie intensive triplicate ma sempre insufficienti. Si è creata la necessità di supportare pazienti che progressivamente, ma molto rapidamente, presentano grave insufficienza respiratoria sino all’exitus a domicilio, cui sono seguite anomale quanto strazianti procedure di dichiarazione di decesso e supporto ai familiari che non sempre è possibile isolare in sicurezza, quindi anche loro pazienti da assistere.
Il tutto rattristato dalle perdite di Colleghi che a decine sono venuti a mancare perché non adeguatamente protetti, e accompagnati dal pensiero di poter essere contagiati seguendone lo stesso destino. Uno scenario di guerra in tempi di pace, queste le settimane ancora vissute dai Colleghi nel territorio, soprattutto medici di famiglia, nelle zone a maggiore diffusione di COVID-19.
Altra dimensione, totalmente diversa, nelle aree della penisola meno colpite. Da sei settimane, quasi ovunque c’è un’attività prevalentemente di educazione alla cittadinanza, prevenzione, raccomandazione, rassicurazione, contatti telefonici o con qualsiasi modalità continui, massima accuratezza nelle rare visite ambulatoriali utilizzando presidi acquistati talora improvvisati, applicando regole di igiene tra una visita e la successiva, evitando visite domiciliari se non dotati di DPI, ma garantendo consulenze telefoniche o per qualche realtà come la Regione Lazio la televisita, facendo interventi di terapie in fasi di esordio sintomatologico (osservo tuttavia che oggi la Idrossiclorochina ampiamente approvata anche se off label risulta esaurita in molte città…), quasi sempre in assenza di verifica con tamponi, ancora tendine achilleo delle procedure, nonostante le COVID UNIT segnalino che i ricoveri avvengono troppo spesso in pazienti già pneumologicamente e sistemicamente compromessi, con minore possibilità di guarigione. I medici di famiglia del Centro e del Sud hanno di certo avuto il tempo di apprendere più informazioni sul virus sconosciuto, di organizzare una modalità di prevenzione possibile, di beneficiare dell’isolamento previsto da disposizioni governative che, sebbene forse tardivamente, hanno molto rallentato il contagio, ma restano comunque inermi e indifesi, a mani nude, di fronte un nemico invisibile ormai presente ovunque e per il quale non posseggono né strumenti diagnostici (ma solo criteri clinici, talora applicati con ansia) né strutture organizzative equidistribuite con percorsi definiti- Eppure il tempo c’è stato per programmare.
Per sopperire a questo grave deficit della catena di assistenza territorio-ospedale, in alcune realtà sono state attivate unità operative. Ad esempio a Carpi la prima Unità speciale di continuità assistenziale (Usca) per seguire pazienti sospetti, infetti, isolati a casa o dimessi, utilizzando medici in formazione specifica in Medicina Generale o medici di Continuità assistenziale. È

è il Medico di Medicina Generale, il Pediatra o il medico di Continuità Assistenziale ad attivare l’Unità che, dopo un contatto telefonico con il paziente, programma l’intervento a domicilio. Il medico dell’Unità Speciale può disporre la permanenza al domicilio ed il monitoraggio del paziente a casa propria, ma anche gli accertamenti diagnostici veloci, o in caso di condizioni cliniche critiche attivare il 118 e quindi il ricovero.
A  Piacenza, quattro unità speciali di continuità assistenziale, con dispositivi di sicurezza e dotate di un ecografo palmare, andranno a domicilio di persone positive o sospette positive su indicazione specifica del Medico di famiglia per dare continuità in caso di sospetto COVID-19.
A Roma invece tre camper con Medici addestrati e protetti effettueranno i test a partire da aree selezionate per maggiore concentrazione di casi positivi identificati. Insomma, un territorio che autonomamente organizza e sperimenta modalità di assistenza integrata per facilitare il percorso diagnostico terapeutico a domicilio.

L’epilogo

Era possibile programmare una assistenza capace di garantire la continuità territorio-ospedale-territorio per offrire un percorso di: diagnosi e cure iniziali/ricovero se necessario/cure in dimissione? Forse sì.
Fermo restando che la migliore arma per la contenzione della diffusione è l'isolamento, specie se consapevole e precoce, non condizionato dalle logiche economiche bensì dalle scelte scientifiche, il requisito fondamentale per il controllo delle epidemie resta la protezione del personale sanitario che opera, ANCHE quello del territorio, SOPRATTUTTO quello del territorio, perché costituisce il primo contatto di orientamento diagnostico, ed è anche il primo ad ammalare. I medici di famiglia hanno strumenti anamnestici che aggiunti a criteri di clinica (ottimali se corredati da visita domiciliare con DPI) consentono di valutare singolarmente e decidere il ricovero a loro giudizio, possono identificare pazienti con maggiori fattori di rischio (es. maschi, over 50 anni, fumatori, ipertesi, diabetici, con febbre alta) che appena si presenta riduzione della saturimetria (ed eventuale riscontro diretto di segni polmonari) dovrebbero essere ricoverati subito, non affidati al territorio senza armi efficaci, per trattare ad esempio con Ritonavir e Darunavir, Tucilizumab, ossigenoterapia, ed ogni altra terapia anche sperimentale, ma in osservazione protetta.
L’epidemia deve ancora superare il picco e speriamo alcune esperienze maturate in queste prime sei settimane sostengano scelte e soluzioni efficaci per tutte le Regioni non ancora colpite in modo grave, con disponibilità di test diagnostici preventivi per le persone a maggiore rischio, senza ulteriori vittime tra i medici, senza ricoveri tardivi, ma con speranza per una estinzione del fenomeno prima dell’estate e verso la produzione di un vaccino risolutivo.