Ogni medico, tutti i giorni, incontra un volto sempre nuovo della sofferenza perché nessun paziente è mai uguale ad un altro. E, ogni giorno, chiede all’uomo, ancor prima che alla sua scienza: «Se fossi io, al suo posto, come mi comporterei?».
Incontro il mio vicino di casa in ascensore. Comincia ad esser sera, fa freddo, lui è in pantofole, ha solo una felpa addosso. Mi dice, quasi a leggere la mia domanda: «Vado giù, mia moglie a volte dimentica la strada, è da una sua amica, la vado a prendere, sono più tranquillo». Lui è anziano, la moglie è tornata ad essere una bambina e lui adesso ne è anche il papà. «Mi creda dottore, ho 83 anni, è una sofferenza, ha solo me e io non ho più le forze».
Lei ogni tanto bussa alla mia porta. Non ha orari, è quando è assalita dal suoi tormenti, dai suoi fantasmi. Io le parlo, le parlo, le parlo, poi, arriva sempre lui, suo marito, suo papà, mi chiede sempre scusa e la riaccompagna in casa.
Io rimango sempre per un attimo sulla soglia a pensare che dovrei essere io a chiedergli scusa. È la società che deve farlo, perché lei ha solo una porta a cui ogni tanto bussare e un amore allo stremo delle forze. La società che si dice civile, ma toglie il reddito ai poveri e non dà cittadinanza alla sofferenza della mente, lasciandoli da soli.
Ho sempre pensato che se dovessi scegliere di quale malattia soffrire, io sceglierei il dolore della carne. Perché me la gioco, o vinco o perdo, non ho altre strade se non la lama del bisturi e poi la speranza. Ma io il mio l’ho fatto, ed è una strada conosciuta.
Io ho paura del dolore dell’anima o della mente che sfiorisce perché è un gioco dove non ci sono mai vincitori, ma sono tutti vinti, pazienti e familiari e tutti sono chiedersi cosa fare di più. È una strada che nessuno conosce ancora.
Ammiro questo signore. Io non so se reggerei l’onda innaturale della ragione, se avrei la pazienza di vivere un giorno sempre alla luce del sole, se avrei il coraggio di lottare contro il vento della solitudine.
Io al suo posto non so come mi comporterei.