Il suicidio tra gli studenti di Medicina

Gli studenti di tutto il mondo sono a forte rischio di scarso benessere mentale, di depressione, arrivando anche a ideazione e comportamenti suicidari. Tra questi, si sospetta che gli studenti di Medicina rappresentino il gruppo potenzialmente più in pericolo.

«Dobbiamo cercare di analizzare il fenomeno con uno sguardo d’insieme a livello di popolazione. Lo sguardo d’insieme si può avere solo raccogliendo dati, analizzando statistiche e trend»

esanum: Possiamo affermare che gli studenti di Medicina, rispetto agli altri studenti, siano più a rischio di soffrire di problemi di salute mentale?

Si tratta di un ambito finora poco esplorato. Negli ultimi anni, probabilmente a causa della diminuzione del numero dei medici, c’è stata un’inversione di tendenza ed è aumentato l’interesse verso il benessere dei medici e degli studenti di Medicina. Su questo argomento la letteratura scientifica oggi non offre evidenze solide. A dirla tutta, le conclusioni degli studi vanno in direzioni spesso contrastanti.
Ad esempio, le ricerche dicono che gli studenti di Medicina mostrano meno spesso il sospetto di diagnosi franche di depressione maggiore, di ansia generalizzata. Tuttavia, allo stesso tempo, quando i sospetti emergono e vengono indagati, sono quasi sempre confermati. Come possiamo interpretare questo dato?
Esiste ancora un grande stigma nei confronti delle malattie psichiatriche, che pesa sui malati e sui loro familiari. Si teme il pregiudizio, la colpevolizzazione, l’isolamento. Nell’ambito della comunità medica, questo stigma si amplifica. Il medico con una sofferenza psichiatrica in atto difficilmente palesa la propria sintomatologia. Stessa cosa vale per gli studenti di Medicina. Gli studenti sanno che i loro insegnanti, in quanto medici, potrebbero venire a sapere del loro malessere. C’è poi il timore che, dopo la laurea, la scuola di specializzazione o l’ordine dei medici possano venire a conoscenza di questo loro momento di difficoltà, rappresentato magari da un periodo breve di depressione o di ansia.
In ambito medico le università, gli ospedali, gli ordini professionali, le scuole di formazione sono tutti elementi embricati e determinano relazioni spesso durevoli nel tempo. Gli studenti di Medicina, pensando al loro futuro, temono che una diagnosi psichiatrica possa inficiare la loro credibilità nei confronti dei pazienti e dei colleghi.
È molto diffusa l'idea di dover preservare l’immagine pubblica del medico, come se fosse una figura non-umana. Prendiamo ad esempio un tema di cui si parla spesso ultimamente: il burnout. Se ne parla in modo generalizzato, certo, senza mai approfondire. Chi, in ospedale, ne parla con i colleghi? Quali ricerche finora hanno raccolto dati solidi per analizzare il fenomeno e attivare piani di intervento efficaci? I medici, per primi, sono reticenti a parlarne, probabilmente proprio a causa di questo stigma che viene vissuto all’interno della comunità medica.

esanum: Se lo stigma nei confronti delle malattie psichiatriche è così forte, ha senso attivare servizi di supporto psicologico all’interno delle università e degli ospedali?

Da sola, non sembra essere una soluzione efficace, seppur certamente motivata da buone intenzioni. Tuttavia, in Italia oggi sono poche le università che garantiscono un costante e fruibile supporto psicologico ai propri studenti. Le università che attivano i cosiddetti sportelli di ascolto, difficilmente vanno incontro alle effettive esigenze dei ragazzi.
Prima di tutto c’è il problema dell’anonimato. L’università può garantire che l’uso del servizio risulti poi anonimo? Uno studente che non è sicuro dell’anonimato, temendo che i suoi docenti possano venire a sapere del suo problema e che possano giudicarlo, non userà mai il servizio messo a disposizione. Per gli studenti di Medicina, poi, la cosa è ancora più manifesta. 
Se uno studente di Ingegneria è in crisi con gli esami e per questo va in depressione, si può rivolgere ai medici senza temere che i suoi docenti o i suoi futuri datori di lavoro lo sappiano. Questo aspetto rimane invariato anche dopo la laurea. Per uno studente di Medicina rivolgersi ad uno sportello di ascolto messo a disposizione dell’università è difficile, perché chi lo ascolta è un suo insegnante o lavora a stretto contatto con il suo insegnante. Per un medico di 40 anni rivolgersi ad uno sportello di ascolto messo a disposizione dell’ospedale è difficile, perché chi lo ascolta è un suo collega.
Qualora poi si ravvisasse la necessità di una visita psichiatrica, di un approfondimento, può l’università contattare il medico curante o i servizi sanitari in generale? L’università ha questo campo d’azione? In questo ambito si lavora ancora a macchia di leopardo, senza modalità definite e condivise.

esanum: Le università si stanno interessando al fenomeno?

Non molto, secondo la mia esperienza. Per prima cosa, si parla poco del problema - e se non se ne parla, risulta impossibile mettere in atto una qualche iniziativa. Quando si parla del problema, spesso in seguito all’ennesimo caso estremo di cui si legge nella cronaca, lo si fa entrando nel particolare. Si focalizza l’attenzione sul singolo individuo, sulla sua situazione personale, sulla famiglia, sugli affetti.
Io credo, invece, che dobbiamo cercare di analizzare il fenomeno con uno sguardo d’insieme a livello di popolazione. Lo sguardo d’insieme si può avere solo raccogliendo dati, analizzando statistiche e trend. Il problema è che le università sono reticenti a fornire i dati sui loro studenti affetti da disturbi psichiatrici e che tentano o commettono il suicidio - molto spesso non hanno questi dati. Il registro di morte è comunale. L’ISTAT, che dovrebbe tenere i trend di mortalità, non ha i dati sulla condizione dei suicidi, quindi non sappiamo quanti, tra i casi di suicidio, riguardino gli studenti di Medicina, di Ingegneria, di Lingue, o altro.
Stando così le cose, va fatta per prima cosa una sensibilizzazione a livello, se non politico, almeno di politica sanitaria. Bisogna osservare questo fenomeno, caratterizzarlo e descriverlo. Senza la capacità analitica di osservare gli avvenimenti, non si può pensare ai piani di intervento. Oggi manca proprio il perno iniziale, purtroppo.
Noi vediamo il campanello d’allarme del ragazzo che si suicida, della bugia che nasconde esami mai sostenuti, ma dobbiamo andare oltre: si deve trovare la giusta lente d’ingrandimento per analizzare il problema. Manca purtroppo la volontà di farlo.

Durante i miei sei anni di studio all’Università di Pavia, cinque studenti di Medicina si sono tolti la vita. Per la prima volta è successo al mio secondo anno di corso e si è trattato di un mio compagno di classe.(2)

esanum: Qual è il primo passo da compiere?

Non dobbiamo partire dallo sportello di ascolto aperto dall’università, ma da un registro unico nazionale di mortalità per la raccolta di dati su questo fenomeno. Come si fa, ad esempio, per gli incidenti stradali. Serve in primis una modalità comune e diffusa per raccogliere i dati che servono ad analizzare il fenomeno. Tutti gli interventi di politica sanitaria, anche a livello internazionale, partono da qui.
Oggi invece abbiamo dati frammentati a vari livelli, che spesso non tengono nemmeno in considerazione gli stranieri che studiano in Italia. Senza dati, non possiamo fare alcun ragionamento analitico.

esanum: La questione non è solo italiana. Perché, a livello globale, manca la volontà di raccogliere dati, analizzare il problema e proporre soluzioni?

La probabile maggiore propensione all’insorgenza di sindromi depressive e al suicidio degli studenti di Medicina è stata evidenziata da vari studi, in diversi Paesi. Tutti hanno concluso che, per analizzare il fenomeno, servono più dati.
Le cause di questa mancanza di dati sono diverse. Tra quelle più importanti, a mio parere, c’è la questione delle università private. Se questo fenomeno è contenuto in Italia, negli USA è ampiamente diffuso. Quale università privata può avere voglia di essere trasparente su questo tema, rischiando di perdere appeal e clienti? Per loro è meglio mettere in mostra studenti ultra-performanti, eccellenti anche nell’arte di ripiegare il tovagliolo a tavola.
Le università sono reticenti a raccogliere e condividere questi dati. I registri di mortalità sono spesso incapaci di raccogliere informazioni in modo completo.
Non possiamo nemmeno raccogliere i dati dai media. Esistono diverse raccomandazioni a non diffondere le notizie riguardanti i casi di suicidio perché, su questo c’è evidenza certa, quando un atto suicidario viene sottolineato dai media, subito dopo si ha un incremento dei casi (si parla di copycat suicide). I media giocano un ruolo importantissimo sull’attrattività del fenomeno suicidario. Negli USA spesso si osservano, dopo un atto suicidario, delle vere e proprie ondate di diagnosi psichiatriche e anche di suicidi. Spesso le ondate sono locali, molto intense, tendenti ad esaurirsi nel breve periodo.

esanum: Lo studente di Medicina potrebbe avere maggiore propensione al suicidio più per questioni soggettive o più per questioni legate al contesto?

Possiamo dire, osservando e generalizzando, che i due elementi, lo studente di Medicina e la scuola di Medicina, quando vanno a coesistere, risultino importanti allo stesso modo nell’innescare specifiche dinamiche che possono minare la salute mentale dello studente.
Sappiamo che lo studente di Medicina è probabilmente inquadrabile in una determinata tipologia di personalità, seppur con vari sottotipi. Immaginiamo ad esempio che la personalità tipo dello studente di Medicina si caratterizzi per dinamiche legate al successo, allo status sociale, alla leadership. Un ambiente accademico che non tiene conto di queste caratteristiche peculiari dei suoi studenti, che non si informa, che non educa, è ovviamente destinato a creare situazioni di stress.
Probabilmente un'altra tipologia di persona non avrebbe lo stesso grado di sofferenza, ma ciò che ci interessa è vedere il mondo com'è oggi. L'idea della psicologia universitaria, di un intervento universitario tout-court perde di senso quando noi ci rendiamo conto che gli studenti tra di loro sono molto diversi, sono portatori di desideri e necessità differenti.

esanum: Un nuovo corso di laurea in Medicina che, in qualche modo, si modelli sulle caratteristiche generali dei suoi studenti potrebbe essere quindi l’intervento più efficace per migliorare il benessere degli studenti?

Esatto. Bisogna evitare la torre d’avorio, l’università chiusa e lontana dalle esigenze degli studenti. Il percorso di studi deve essere pensato per chi lo segue, offrendo sempre alternative per sviluppare al meglio le attitudini e le capacità individuali.
Personalmente ritengo che questo elemento sia più rilevante per Medicina rispetto ad altri corsi di laurea, perché per gli studenti di Medicina c’è forte commistione tra il percorso accademico e quello lavorativo. Chi studia Lettere, ad esempio, ha poche possibilità che il suo professore d’università possa diventare il suo superiore sul posto di lavoro o che, in qualche modo, possa interagire (e magari determinare) la sua futura sfera lavorativa.
Per lo studente di Medicina non è così. La figura del medico è particolare, ha più piani d’intervento che si intersecano fra loro. Gli studenti di Medicina ne sono consapevoli, sanno che il rapporto coi loro professori non si chiuderà con la laurea. Per altri può valere l’idea di stringere i denti durante l’università per poi chiudere la parentesi e aprirne una nuova, quella lavorativa. Per i medici esiste una prospettiva futura d’interazione con il mondo accademico durante la scuola di specializzazione, la formazione continua, le attività di ricerca. Il medico, fin da quando è studente, ha di fronte a sé una commistione tra diversi aspetti: il mondo formativo, professionale, sociale, sono un tutt’uno, con associate dinamiche competitive e di potere durature.

esanum: Il burnout tra i medici nasce quindi da lontano, già ai tempi della scuola di Medicina?

Penso proprio che sia così. Il tema del burnout tra i medici è complesso. è un ambito di ricerca su cui sto lavorando, insieme ad altri colleghi, con non poche difficoltà. La prima, che può sembrare banale, è l’ambito di applicazione del termine “burnout”. Quando si parla di burnout se ne parla sempre in ambito lavorativo. Per i medici esiste un periodo in cui si è medici, ma allo stesso tempo studenti, il periodo della specializzazione. Si può usare il termine burnout in questa fase di commistione tra studio e lavoro? Si può usare il termine burnout per gli studenti di Medicina?
Parlando dei medici, bisogna prendere in considerazione l’idea di una identità non separata dalla professione - il medico è medico sempre, anche quando dorme. Come si gestisce questa identità? Come la si insegna, come viene trasmessa?  
Il giuramento di Ippocrate ci dice di trattare chi ci insegna a fare il medico come un familiare. L’idea del gruppo, della famiglia, dell’identità è radicata nella tradizione medica occidentale, da oltre duemila anni. L’idea del medico che riveste un ruolo speciale nella società è anch’essa antica e, probabilmente, il peso che ne deriva si fa sentire già quando si inizia a studiare Medicina. A mio parere bisogna partire da qui per analizzare il fenomeno del burnout tra i medici. Forse non è l’idea che tutti abbiamo del medico a dover essere corretta, ma il modo in cui i futuri medici la assimilano, in primis all’università.

"Giuro per Apollo medico e Asclepio e Igea e Panacea e per gli dèi tutti e per tutte le dee, chiamandoli a testimoni, che eseguirò, secondo le forze e il mio giudizio, questo giuramento e questo impegno scritto: di stimare il mio maestro di questa arte come mio padre e di vivere insieme a lui e di soccorrerlo se ha bisogno e che considererò i suoi figli come fratelli e insegnerò quest'arte, se essi desiderano apprenderla; di rendere partecipi dei precetti e degli insegnamenti orali e di ogni altra dottrina i miei figli e i figli del mio maestro e gli allievi legati da un contratto e vincolati dal giuramento del medico, ma nessun altro”(3).

esanum: La pandemia di COVID-19 ha modificato (e sta modificando) gli equilibri e le dinamiche in diversi settori della sanità. Quali sono gli elementi di novità che riguardano i giovani medici, dal punto di vista della salute mentale?

Si nota la tendenza dei giovani medici a separare maggiormente la sfera professionale dalle restanti componenti della propria vita. Su questo non abbiamo dati, si tratta solo di percezioni. Un elemento importante alla base di questa nuova tendenza è la mutazione del corso di specializzazione, che da corso di formazione si sta trasformando sempre di più in un percorso lavorativo vero e proprio. A questo possiamo aggiungere il cambiamento del contesto culturale in cui si colloca oggi la figura del medico rispetto al passato, quindi il cambiamento dell’idea che la società oggi ha del medico. E forse anche la rivoluzione digitale che stiamo vivendo ha determinato nuove consapevolezze.
Ma, certamente, In Italia questo fenomeno è aumentato dopo il 2020 quando, a causa della pandemia di COVID-19, molti giovani medici, appena abilitati, sono andati a lavorare per gestire l’emergenza sanitaria. Dal 2020 i medici neolaureati, a causa della pandemia e della carenza di personale, grazie alla laurea abilitante, sono stati gettati nella mischia. Hanno lavorato, hanno interagito con i pazienti, hanno fatto diagnosi gomito a gomito con colleghi più anziani e più esperti. Questo ha permesso loro di interiorizzare una figura professionale personale, un’idea di medico lontana da quella che nasce in scuola di specialità e in università.
Chi è entrato in scuola di specialità oggi, non ci è entrato da neolaureato senza alcuna esperienza professionale. La maggior parte dei giovani specializzandi oggi sono in scuola di specialità avendo alle spalle un’esperienza sul campo. Questo ha cambiato le dinamiche, probabilmente esacerbando il conflitto intergenerazionale.
Alla luce di questo e di altri fattori che stanno contribuendo a mutare il ruolo e la percezione del medico nella società, probabilmente anche le scuole di specializzazione devono essere ridisegnate, tenendo conto dei medici che oggi le frequentano.
Come per gli studenti di medicina, anche il benessere mentale degli specializzandi necessita, in prima battuta, di un’analisi precisa delle caratteristiche e delle esigenze specifiche degli specializzandi stessi.
 

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Dr. Livio Tarchi


Note e approfondimenti:
1. Tarchi L, Moretti M, Osculati AMM, Politi P, Damiani S. The Hippocratic Risk: Epidemiology of Suicide in a Sample of Medical Undergraduates. Psychiatr Q. 2021 Jun;92(2):715-720. doi: 10.1007/s11126-020-09844-0. Epub 2020 Sep 7. PMID: 32895751; PMCID: PMC8110500.
2. Tarchi L. La sindrome di Ippocrate. L’eco del nulla. 13/10/2020
3. Giuramento di Ippocrate (testo antico)